La mia Istanbul
Amo Istanbul. E questo forse si sa. Bizantina è il secondo nome di mia figlia Caterina. Bizantina è stata la notte con i dervisci ruotanti per la festa dei suoi 18 anni. Bizantina è il nome delle bag, pezzi unici d’ispirazione ottomana che creo con amore per le amiche nel mondo. Bisanzio è un viaggio perenne, un’alchimia romantica e viscerale. Istanbul è il profumo dei simit appena sfornati presi al volo dagli ambulanti di Sultanahmet o la mattina presto al piccolo forno di Çukurcuma dove, sgranocchiando cetrioli sottaceto esposti nei barattoli giganti di Asri Türšucu, dal 1913 storico negozio del quartiere, è bello girovagare tra vecchi rigattieri e nuovi designer. Istanbul non è gin tonic, ma è limonata home-made con foglie di menta, è Boza, è Ayran. E’ l’odore dei fiori di limone della colonia “Pereja”, souvenir turistico degli anni Cinquanta che ancora si trova nella sua bottiglia d’epoca in qualche piccola bottega di Eminönü come la mitica crema Dalan d’Olive che rende la pelle morbidissima e riporta, con il suo profumo, alle atmosfere dell’hamman. Amo i sapori stanbulioti, bottarga di muggine e pastirma avvolti nelle inconfondibili shopper di tela di Cankurtaran Gida, negozio di gourmandise dal 1946 all’interno del Bazar delle Spezie. Da lì, dopo un’ennesima visita alla moschea di Rüstem Pascià, mi piace camminare e perdermi per ore tra le strade strette degli antichi quartieri greco ed ebraico di Fener e Balat, sospesi nel tempo tra case cadenti e colorate, bambini che giocano e panni stesi, dove i turisti sono rari e nessuno parla inglese. Mi fa sentire a casa dormire intorno a Galata, fare breakfast “a la turca” , il Kahvalti platee sulla terrazza dell’Anemon Hotel, affacciata sul Corno d’Oro. E’ un rito girare pigramente tra i piccoli atelier dei giovani designer e portare le amiche da Pia per un paio di francesine rosse e nere con i fiori ricamati, dopo un lunch - imperdibile la pogaça che è un po’ il nostro calzone ripieno - tra i gabbiani della terrazza con vista del Galata Konak Cafè, all’ultimo piano di un fascinoso palazzo primi Novecento. Mi piace la sera scendere la scala Camondo, gioiello tra art nouveau e neobarocco a pochi metri dal museo Salt Galata e dirigermi verso Karakoy Lokantasi, un’istituzione con le sue piastrelle azzurre, il topik, tortino a base di ceci e tehini e l’immancabile bicchiere di raki, il classico Yeni o Efe etichetta nera, allungato con acqua gelata. Mi diverte sentirmi un po’ la protagonista di uno dei romanzi gialli di Esmahan Aykol e centellinare un’insalata ai tavolini di Beymen Brasserie, molto amata dalle fashion-victim di Nišantaši. Come tutti gli stanbulioti non rinuncio all’affollato struscio del tardo pomeriggio a Istiklal caddesi, il viale dell’Indipendenza che da Tünel porta a Taksim, per curiosare tra le stampe antiche e i vecchi libri di Denizler Kitabevi, fermarmi per una messa in piega veloce da Ar 1 Kuaför , (davanti alla chiesa di Sant’Antonio, un lavatesta e due sedie, sembra un parrucchiere retrò, ma sono bravissimi) e acquistare in uno dei negozi Mavi l’ultimo modello dei miei jeans preferiti. A Istiklal cad. si ascolta la musica degli artisti di strada e proprio qui, a pochi metri dal Çiçek Pasaji, suonavano i ragazzi di Light in Babylon diventato in pochi anni uno dei gruppi folk più ascoltati in Turchia. E al tramonto, un bicchiere di Sarafin fumè blanc - tra i migliori vini locali - al bar di Lab-i-Derya, meravigliosa oasi con vista al sesto piano di un palazzo fatiscente che ricorda un po’ L’Avana Vecchia.
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