La «nobil magia di bellissime tinte» di Francesco Solimena al servizio di Vittorio Amedeo II
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Il 13 novembre 1723 il re Vittorio Amedeo II, firmandosi semplicemente «Amodeo» scriveva una lettera a Francesco Solimena a Napoli dalla sua residenza di Venaria Reale mostrando «la satisfaction, avec la quelle nous avons deja re¬marquè dans vos deux premieres tableaux cet¬te habilité, qui vous destingue, nous prepare à etre de même entièrement contents de celui d’Eliodore, que nous espérons de recevoir au premier iour». Il dipinto con La cacciata di Eliodoro effetti¬vamente arrivò presto a Torino, come registrato nel pagamento dell’11 dicembre 1723, terzo di una serie di quattro commissionati a Soli¬mena per il «Gabinetto giallo della Maestà del Re» al secondo piano del Castello di Rivoli. Il caposcuola napoletano Francesco Solimena era stato contattato fin dal 1720 e l’ambasciatore sabaudo presso la corte di Napoli era stato invitato ad avere accortezza: «ce peintre étant un peu délicat, il agréera qui vous alliez le voir quelquefois et que vous lui fassiez même quelque civilité pour l’animer à s’appliquer à la perfection de son travail». Il risultato di quell’operazione diplomatica, fatta di sollecitazioni e gratificazioni per Solimena, doveva aver soddisfatto i desideri del committente se dopo le prime due tele, Davide vincitore degli Amaleciti e Salomone accoglie la regina di Saba, realizzate tra il 1720 e il 1721, vennero commissionate al pittore La cacciata di Eliodoro e La profetessa Debora, arrivate a Rivoli entro il 1724. L’apprezzamento torinese per Solimena doveva essere noto ai contemporanei, in particolare Bernardo De Dominici ricorda l’encomio manifestato da «quel prencipe che gli testimoniò in una sua lettera, che ogni qualvolta gli conveniva passare per quella stanza ov’erano collocati i suoi quadri, egli non potea fare a meno di fermarsi, forzato dalla bellezza di essi, per riguardargli di nuovo». Le quattro tele del pittore napoletano furono poi il perno centrale del riallestimento voluto da Carlo Emanuele III, figlio di Vittorio Amedeo II divenuto re nel 1730, della «Camera del Solimena» nell’Appartamento d’inverno in Palazzo Reale a Torino, con la commissione di altre quattro prove ad artisti della scuola romana, veneta e bolognese, con l’intento di comporre un florilegio delle principali istanze stilistiche della pittura contemporanea, e parallelamente, attraverso una colta selezione iconografica, di fornire un messaggio morale che volesse esaltare le virtù proprie del sovrano. Filippo Juvarra, regista delle scelte artistiche della corte sabauda, doveva infatti aver contribuito all’intuizione per l’affidamento degli incarichi a Solimena per Torino, un progetto figurativo attuato nel Gabinetto giallo di Rivoli in un inedito confronto tra i due esponenti di punta della scuola veneta e napoletana, Sebastiano Ricci e Francesco Solimena. Un paragone tra fuoriclasse della pittura contemporanea che coinvolgeva e si estendeva alle chiese della città con la commissione allo stesso Solimena della sorprendente pala d’altare con il «San Filippo Neri che raccomanda la Città di Torino al Bambin Gesù tenuto in braccio da Maria Vergine con gran corteggio d’Angeli» per la chiesa di San Filippo Neri, dirimpetto all’altare con il Martirio di san Lorenzo realizzato dal romano Francesco Trevisani. La quintessenza dei rapporti artistici tra Napoli e Torino è racchiusa dunque nel dipinto con La cacciata di Eliodoro, già nel Castello di Rivoli, poi a Palazzo Reale e ora alla Galleria Sabauda dei Musei Reali di Torino. Solimena sceglie di mandare al re Vittorio Amedeo II una prova del tema – riadattato secondo un diverso assetto e una nuova simmetria – su cui stava lavorando già dal 1722, la cui ultima e magniloquente versione è la celebre Cacciata per la controfacciata del Gesù Nuovo a Napoli terminata nel 1725. Tanto il soggetto quanto il modello di impaginato utilizzato richiamano alla memoria il Raffaello delle Stanze Vaticane, mediato da Solimena attraverso il magistero coloristico e compositivo «vago e armonioso» di Luca Giordano e «con terribil disegno, e forza di chiaroscuro ad imitazione» di Mattia Preti. Il risultato dispiegava una maniera di «mirabile studio, e bellezza nel panneggiare, di somma grazia ne’ volti, mirabile, anzi maravigliosa nella variazione delle fisionomie né gran componimenti» e, soprattutto, era riuscito «nell’unione di un fortissimo, e perfetto, chiaroscuro, con un incomparabile tenerezza», ritrovata nello studio del naturale: una «nobil magia di bellissime tinte». Cecilia Veronese |
Cecilia Veronese
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